Alla ricerca dell’equilibrio tra esclusività e diritti dei consumatori nel settore del lusso: il caso Hermès

shopping consumer rights

Recentemente è stato portato al centro del dibattito il fatto che, di fronte a una situazione economica instabile, sono molteplici le iniziative pensate e proposte dalle società operanti nel mondo del lusso per proporre offerte sempre più esclusive ai clienti più affezionati ed attrarre i cosiddetti “super-ricchi”. In aggiunta alle tradizionali esperienze come l’accesso a saloni privati, tra i quali sono diventati celebri quelli riservati da Gucci e Chanel esclusivamente alle collezioni più pregiate, e viaggi di lusso, è emerso negli ultimi tempi un metodo, meno evidente ma altrettanto potente: consentire esclusivamente ai cosiddetti “top-clients” l’accesso a determinati prodotti.

Questa pratica è stata al centro di una recente denuncia presentata contro Hermès. La maison francese avrebbe deliberatamente e, soprattutto, illecitamente limitato l’accesso alle sue ambitissime borse modello Birkin. Battezzate in tal modo in onore dell’attrice e cantante di origine britannica Jane Birkin, esse considerate uno status symbol e caratterizzate ormai da tempo per l’altissima desiderabilità. Non è, tuttavia, realistico sperare di acquistare una Birkin entrando semplicemente in una boutique Hermès o inserendola nel proprio carrello online. Infatti, è noto che, per avere la possibilità di ottenere una di queste borse, occorre affrontare la leggendaria e apparentemente interminabile lista d’attesa, con tempistiche che si aggirano intorno ai cinque anni. L’adagio secondo cui “solo chi è ritenuto degno si vedrà mostrare una Birkin in una stanza privata della boutique” rappresenta un’efficace metafora della tattica di vendita adottata, improntata allo scopo di generare un’aura di esclusività intorno alle borse che non lascia né speranze, né garanzie di acquisto.

Dunque, ci si è domandati in base a quali criteri la società determini chi è degno di possedere uno dei propri prodotti. È proprio questo il fulcro della denuncia presentata da una coppia di clienti californiani, Tina Cavalleri e Mark Glinoga, i quali hanno proposto un’azione legale con l’obiettivo di espanderne i confini alla class action, al fine di rappresentare migliaia di consumatori statunitensi che hanno acquistato prodotti Hermès o sono stati sollecitati ad acquistarli soltanto per poter accedere all’acquisto di una Birkin. Secondo gli attori, solo coloro che hanno accumulato una sufficiente “cronologia degli acquisti” o un “profilo d’acquisto” con prodotti accessori di Hermès, come abbigliamento, calzature, gioielli e articoli per la casa, sarebbero considerati idonei e avrebbero l’opportunità di acquistare una delle tanto desiderate Birkin.

In sostanza, si denuncia il fatto che Hermès restringe l’accesso all’acquisto di una Birkin solo ai clienti che hanno un solido storico di acquisti presso i propri negozi. Inoltre, gli attori sostengono che i dipendenti ottengono un incentivo aggiuntivo quando riescono a vendere articoli diversi dalle Birkin. Tale pratica di vendita violerebbe lo Sherman Act, la più antica legge antitrust statunitense, la quale vieta il monopolio in qualsiasi settore commerciale, punendo le azioni predatorie, escludenti e anti-concorrenziali finalizzate a mantenere illegalmente il controllo del mercato. Parimenti, tale comportamento parrebbe violare altre leggi dello Stato della California, tra cui il Cartwright Act che vieta gli accordi restrittivi tra un’impresa e altre parti del mercato per promuovere un sistema anticoncorrenziale.

Sulla base di quanto dichiarato, gli attori affermano che il complesso sistema Birkin implementato da Hermès, con l’assistenza degli store manager e degli addetti alle vendite, si spinga ben oltre una mera ricompensa per i clienti fedeli. La questione da porsi è se tale procedimento, in cui per accedere a determinati modelli un soggetto deve, prima, stabilire un solido rapporto di acquisti con la maison, creando una relazione con un rappresentante delle vendite presso uno dei punti vendita e/o uno dei suoi rivenditori autorizzati, possa essere considerato una pratica illecita o costituisca, piuttosto, un metodo legittimo per le aziende del settore del lusso di premiare o riservare un trattamento speciale ai clienti più fedeli.

Questa pratica è, in realtà, comune: Hermès non è, infatti, l’unica azienda del settore che lega la vendita dei propri prodotti più prestigiosi alla quantità di acquisti precedentemente messi in atto da parte dei consumatori di prodotti di fascia inferiore. Altro esempio che ha guadagnato i riflettori è quello di Ferrari, la quale è stata coinvolta, nel 2016, in una disputa incardinata dal super-collezionista Preston Henn. Tale individuo ha convenuto la casa automobilistica italiana per diffamazione a seguito del diniego dell’accesso a una delle 200 LaFerrari Aperta prodotte in quell’anno e della pubblicazione dell’affermazione secondo cui Henn non fosse qualificato per l’acquisto dell’auto. Il caso, tuttavia, è stato oggetto di archiviazione.

È fondamentale tenere in considerazione che non tutti i casi di vendita abbinata sono da considerarsi illeciti. Tradizionalmente, le pratiche identificate in tal modo includono la promozione di due prodotti distinti, il condizionamento della vendita di un prodotto all’acquisto di un altro, il potere economico del venditore nel mercato del prodotto abbinato e un’interferenza “non trascurabile” nel commercio interstatale del prodotto abbinato. Secondo la Federal Trade Commission (FTC), la vendita abbinata diventa foriera di questioni, a livello giuridico, soltanto quando un “monopolista” usa “acquisti forzati o vendite “tie-in” per spingere le vendite di prodotti “meno desiderabili”. Questo tipo di pratica, secondo la stessa agenzia per la tutela dei consumatori, può limitare le scelte dei consumatori, costringendoli ad acquistare un secondo prodotto esclusivamente per ottenere quello desiderato. Il prodotto “vincolato” di solito è meno appetibile e potrebbe non essere acquistato se non fosse necessario o preferito da un altro venditore.

In conclusione, se gli attori o le autorità per la regolamentazione del mercato non dimostreranno che le aziende coinvolte hanno il potere economico necessario sul mercato e che effettivamente condizionano sistematicamente la vendita di prodotti specifici a quella di altri beni, sembra che i comportamenti contestati ad Hermès e ad altri operatori del lusso si pongano all’interno dei confini stabiliti dalla normativa antitrust. Tuttavia, quella appena esaminata non è l’unica questione rilevante posta da questo caso, che ruota altresì intorno all’equilibrio tra l’esclusività del marchio e i diritti dei consumatori, alimentando un dibattito che sarà al centro delle discussioni su moda e diritto per lungo tempo.

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