Si riaccende il caso de “Il boss dei panini” dopo lo scontro con “Hugo Boss”

boss-del-panino-vs-hugo-boss

Con l’ordinanza n. 26877 del 20 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha completato un’altra tappa nel percorso relativo alla contesa che, ormai da qualche anno, è stata instaurata fra due soggetti perfettamente corrispondenti alla metafora di Davide contro Golia. L’ultima decisione emessa, in particolare, imprime una decisiva sterzata nel procedimento di registrazione della domanda di marchio che, dopo essere stata oggetto di provvedimento sia da parte della Divisione Opposizioni sia da parte della Commissione dei Ricorsi dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), dovrà ora ritornare tra le mani di quest’ultima per quella che si auspica essere la conclusione di una storia ricca di colpi di scena.

È datata 29 aprile 2016 la domanda di marchio italiano per il segno denominativo “IL BOSS DEI PANINI”, depositata da una piccola impresa collegata ad una piccola attività di street food localizzata a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Una volta superata la fase di esame formale condotto dall’UIBM e debitamente pubblicata, tale domanda è stata oggetto di opposizione proposta da HUGO BOSS TRADE MARK MANAGEMENT GMBH & CO, società collegata alla HUGO BOSS AG, multinazionale tedesca attiva prevalentemente nel settore moda & beauty, sulla base di un’anteriore registrazione di marchio dell’Unione Europea per il segno “BOSS”. Con la decisione resa il 18 ottobre 2021, l’Ufficio ha accolto integralmente l’opposizione ed ha, dunque, rigettato la domanda di marchio, rivendicante “servizi di ristorazione (fast food), catering in caffetterie fast food, ristoranti fast food” in classe 43. L’analisi dell’UIBM deriva, da un lato, dall’identità riscontrata fra i suddetti servizi e quelli rivendicati dal marchio anteriore di titolarità dell’opponente e, dall’altro, dalla rilevazione che “il consumatore considera l’elemento descrittivo del marchio contestato (DEI PANINI), allusivo o altrimenti debole e non come elemento usato per individuare una particolare impresa e quindi per distinguere prodotti o servizi da quelli di altre imprese”.

Tale prospettiva, tuttavia, non è stata condivisa dalla Commissione dei Ricorsi che, con il proprio provvedimento del 19 gennaio 2022, ha accolto il ricorso della richiedente e annullato la precedente decisione della Divisione Opposizioni. La scelta deriva dal fatto che l’analisi effettuata con riferimento al caso di specie nel precedente grado del procedimento amministrativo è stata giudicata erronea: secondo la Commissione dei Ricorsi, infatti, il marchio anteriore, ossia il marchio “BOSS”, rientrerebbe nella categoria dei cosiddetti marchi deboli, quelli che, secondo i principi stabiliti dall’orientamento della Cassazione tuttora seguito, per la propria natura ricondotta a parole di comune diffusione, restano concettualmente più legati al prodotto o al servizio a cui si riferiscono. L’elemento della comune diffusione della parola “BOSS” all’interno della lingua italiana sarebbe confermato dal fatto che l’uso è ormai invalso in una molteplicità di significati, tra cui anche il contesto scherzoso.

Un ulteriore ribaltamento di fronte, tuttavia, si deve alla Suprema Corte, secondo la quale la Commissione dei Ricorsi non può essere confermata poiché essa ha escluso dalla propria analisi due questioni fondamentali. Sia il fatto che il marchio “BOSS” abbia natura di patronimico sia la notorietà dello stesso, sebbene in relazione a settori merceologici differenti rispetto a quello relativo ai servizi di ristorazione in classe 43, rilevano, infatti, a giudizio della Corte di Cassazione, al fine di una corretta identificazione del marchio stesso come incluso nella categoria di marchio forte o, invece, di marchio debole. Infatti, al marchio patronimico la giurisprudenza di legittimità assegna la natura di marchio forte e lo stesso sembra avvenire per il marchio notorio, il quale “presenta un’accentuata distintività, onde allo stesso, nella differenziazione dei marchi presente nella giurisprudenza nazionale, deve accordarsi l’attributo di marchio «forte»”. La Cassazione pare, quindi, fornire il proprio beneplacito alle argomentazioni proposte dalla ricorrente dinanzi a sé (ossia alla HUGO BOSS TRADE MARK MANAGEMENT GMBH & CO), la quale sottolinea come la debolezza del marchio sia da riscontrare esclusivamente nei casi in cui vi sia un’aderenza concettuale, anche soltanto indiretta, fra l’elemento di parola del marchio ed i prodotti o i servizi che lo stesso contraddistingue sul mercato. Non è, invece, determinante il fatto che il marchio in questione incorpori termini in lingua inglese, sebbene di uso ormai quotidiano per il pubblico di riferimento italiano, dato che gli stessi sono privi sia di una “funzione descrittiva dei prodotti o servizi” sia di uno scopo che rivendichi una qualità degli stessi. La Cassazione conclude, dunque, la propria analisi affermando che “il segno «Boss» deve considerarsi forte se non generi una qualche associazione logica rilevante con l’attività di somministrazione di alimenti che qui rileva”.

La cassazione con rinvio della decisione della Commissione dei Ricorsi ha proprio lo scopo di fornire una nuova possibilità all’UIBM per esprimersi in merito ai punti che non sono stati tenuti debitamente in considerazione nel provvedimento che precede l’intervento della Suprema Corte. L’esito finale della vicenda potrà essere specialmente interessante per fornire nuovi spunti, anche dal punto di vista dell’evoluzione della dottrina, rispetto a temi largamente analizzati (quale, ad esempio, quello della natura “forte” o “debole” di un determinato marchio), ma sui quali non si è ancora formato un ampio e unanimemente condiviso livello di consenso. Oltre a ciò, da non sottovalutare sono anche gli effetti che l’orientamento definitivo potrà avere sulla molteplicità di attività che, in Italia come all’estero, sono contraddistinte dal termine “BOSS” o da parole aventi le medesime caratteristiche.

Torna in alto